Glossario Gastronomico, un libro per capire le parole della ristorazione.

Da un po’ di tempo con un appuntamento mensile fisso vi proponiamo sulle pagine di Radio Food il Glossario Gastronomico, curato da Roberto Mirandola. Per chi non lo sapesse ciò che l’autore definisce un kit di pronto soccorso  per frequentatori assidui di ristoranti, è un libro che raccoglie 750 termini per aiutare a comprendere meglio il linguaggio utilizzato nel mondo della ristorazione. Per saperne di più abbiamo intervistato l’autore.

Il Glossario Gastronomico è un “kit di pronto soccorso” per frequentatori assidui di ristoranti, una raccolta di 750 termini per aiutare a comprendere meglio il linguaggio utilizzato nel mondo della ristorazione, ma anche per fornire in poche righe informazioni e curiosità su alcune parole, materie prime, preparazioni e piatti-simbolo della tradizione gastronomica italiana che normalmente compaiono nei menu. “Le parole della ristorazione: dall’Abbacchio alla Zuppa Inglese” di Roberto Mirandola è un libro utile e dettagliato che consente al lettore di potersi orientare al meglio in un ambito fatto di definizioni, materie prime, tecniche di cottura e ricette tradizionali. Ma come nasce l’idea di un libro così? Perché scriverlo e soprattutto il nostro autore che rapporto ha con le parole, quelle del food e quelle in generale dell’informazione? Per rispondere ai nostri quesiti lo abbiamo intervistato.

Roberto, tu sei l’autore del Glossario Gastronomico – Le parole della ristorazione dall’Abbacchio alla Zuppa Inglese. Come nasce l’idea di questo libro?

RM: Il libro è nato un po’ per caso una decina di anni fa durante una delle mie permanenze all’estero per motivi professionali che esulavano dall’ambito risto-gastronomico. Per occupare il tempo nei giorni liberi, ho deciso di riordinare – sotto forma di glossario – tutti gli appunti, le note, le curiosità e le informazioni raccolte in anni di viaggi gastronomici in giro per l’Italia e per il mondo. Ne è nato quindi un libretto – probabilmente unico nel suo genere – che non è né un vocabolario tantomeno la classica raccolta di ricette. Grazie al formato tascabile, somiglia più ad una sorta  di ‘kit di pronto soccorso’ da tenere a portata di mano. In  un’epoca dove le tecnologie digitali con le loro diverse applicazioni sostituiscono sempre di più la carta, un libretto da portare in una tasca della giacca o nella borsetta penso sia ancora oggi un utile compagno di viaggio.

Roberto Mirandola

Un pronto soccorso da ristorante. Nelle pagine cosa leggiamo?

RM:  Sebbene l’opera abbia come denominatore comune la gastronomia e la ristorazione italiana, non segue, tuttavia, un preciso filo logico. Non si tratta infatti della mera spiegazione, per quanto sintetica, di piatti più o meno regionali. Ho deciso anche di fornire con un linguaggio diretto e colloquiale, informazioni e curiosità su alcuni tra i termini che leggiamo nei menu o che sono entrati nel linguaggio comune o, per dirla con un neologismo, del “ristorantese”.

Un’opera ragionata ed esaustiva. Ma a chi si rivolge il libro?

RM: Il libro rappresenta un quadro, o meglio, un mosaico composto di 750 tessere, per aiutare tutti coloro che frequentano i ristoranti per i motivi più diversi – dalla pausa pranzo frugale al convivio gourmet – a comprendere meglio il gergo del “ristorantese”, facendo anche chiarezza su alcuni dubbi come, ad esempio, la differenza tra acciuga e alice, baccalà e stoccafisso, melanzane alla parmigiana e parmigiana di melanzane – oltre a fornire brevi spiegazioni su materie prime, preparazioni e piatti-simbolo della tradizione gastronomica italiana come la versione originale del tiramisù o le caratteristiche della vera pizza napoletana.

Quali sono secondo te le parole della cucina e della ristorazione che stiamo dimenticando e quelle più abusate oggi?

RM:

L’italiano, inteso come lingua, a differenza di ciò che accade in molti altri Paesi, si caratterizza per una ricchezza verbale straordinaria derivante dai molti dialetti parlati che hanno dato vita a tanti geosinonimi, termini molto diversi tra loro ma che indicano lo stesso piatto. Il cibo in generale è fantasia verbale e le parole nel gergo della cucina e della ristorazione costituiscono un universo infinito, fonte di ispirazione per dare nomi accattivanti a nuove creazioni da inserire nel menù. Si mangia anche con la fantasia: una pietanza si assapora prima con gli occhi e con le parole ancora prima di metterla in bocca. Oggi blog e trasmissioni televisive sono fucine di neologismi gastronomici, alcuni dei quali entrati in dizionari autorevoli. Molti termini culinari hanno ormai oltrepassato anche i rispettivi confini nazionali. Abbiamo preso confidenza con parole inglesi legate, appunto, al modo del cibo. Espressioni come dressing, location, pie, pudding, texture o topping, le utilizziamo quotidianamente, anche se talvolta non ne comprendiamo appieno il significato o le citiamo in maniera impropria. Tali esempi per rimarcare come il lessico quotidiano e per estensione della cucina, dipende dagli aspetti sociali ed economici alimentati dalla globalizzazione che, soprattutto per noi italiani, impone di ricorrere soprattutto all’inglese, oggigiorno lingua universale. Così – ahimè –  compriamo da un food delivery, da un fast food o in food corner oppure ci gratifichiamo con un comfort food dopo avere preparato una bowl di pet food per il nostro amato pet. Consoliamoci pensando alle nostre belle parole del cibo, ineguagliabili, poetiche e tanto ammirate e invidiate dagli stranieri. Patrimonio della nostra cultura, alcune copiate e imitate nel mondo, difficilmente estirpabili dal nostro essere, soprattutto dalle nostre cucine di casa. 

Tu sei un cultore delle parole e dello stile, tra programmi radio, carta stampata e comunicazione di vario tipo, quanto vengono usate bene le parole e che uso se ne fa?

RM: – Come per altri settori, anche il mondo della ristorazione e della gastronomia non fanno eccezione: i superlativi assoluti e soprattutto gli anglicismi, sono ormai entrati nel gergo comune. I primi perché tutto ormai deve essere portato all’estremo, enfatizzato al massimo. Gli anglicismi e i forestierismi in generale, invece, sono utilizzati per aggiungere valore al concetto che si vuole esprimere e dare quel tocco di esotico che per molte persone rappresenta una forma – a torto – di modernismo.    


A parte la scrittura, sei anche un cultore della cucina con diverse esperienze fuori dai confini nazionali, ci racconti come si trova un italiano in giro per le tavole estere?

RM: Generalmente l’italiano all’estero, nella maggioranza dei casi inteso come turista, rifugge dalle cucine dei luoghi di destinazione con la speranza di trovare – anche nelle località più remote – un ristorante italiano che riesca a placare il desiderio della “cucina come a casa”. Personalmente, quando mi trovo oltre confine, non ho mai avuto problemi di sorta: amo scoprire i sapori del posto – soprattutto la frutta e la verdura –  e mangiare nei ristoranti locali. Difficilmente sono rimasto deluso.

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Qual è l’immaginario degli stranieri sulla cucina italiana? Siamo pizza, spaghetti e mandolino o possiamo sdoganare questo stereotipo, considerando che l’agroalimentare italiano è imitato ovunque?

RM: Siamo il Paese della buona tavola con una tra le più ampie tradizioni enogastronomiche e con la cucina più seguita, imitata e ricercata al mondo. Pasta, formaggi, salumi, olio d’oliva e vini – per citare i prodotti più conosciuti – sono icone universali del gusto, qualità e stile, bandiere del Made in Italy perennemente issate. Il problema è la pirateria alimentare costruita da migliaia di prodotti le cui etichette o diciture ricordano foneticamente i marchi italiani e che quotidianamente invadono il mercato sfruttando il potenziale di attrazione del cibo realizzato in Italia. Se la nostra cucina deve la sua notorietà soprattutto alla qualità delle materie prime è altrettanto vero che la stragrande maggioranza dei consumatori stranieri non può avere accesso alle gastronomie d’alto livello nei rispettivi paesi – i cosiddetti deli o gourmet shop – e di conseguenza si fida di ciò che trova nei supermercati. Ed è proprio lì che imperversano i falsi.    

Quanto è imitata invece la cucina italiana fuori confine e con quali risultati?

RM: La cucina italiana proposta fuori dai confini nazionali è sensibilmente diversa da quella che troviamo in Italia. Se dico che due ristoranti italiani su dieci all’estero possono essere annoverati come tali, sono già di manica larga. Qui da noi i rimanenti godrebbero della stessa reputazione che Giordano Bruno avrebbe reclamizzando la Diavolina®. Alcuni sono gestiti da mestieranti che non hanno mai lavorato in una cucina in Italia, altri appartengono a connazionali emigrati all’estero con un passato spesso in chiaroscuro nella ristorazione. Tal altri provengono da settori professionali totalmente diversi, ma che una volta arrivati nel paese straniero d’adozione si inventano cuochi e ristoratori adattandosi ai gusti locali, proprio come avviene per le cucine etniche qui da noi e fortuna loro se la maggioranza degli stranieri non sa distinguere un piatto italiano fatto a regola d’arte da uno che fa pena.

Roscon de Reyes

La cosa più strana che hai mangiato? Il piatto più buono che hai mangiato fuori dall’Italia e che secondo te dovremmo assaggiare anche noi.

RM: Alimenti o piatti cosiddetti “strani” credo di non averne mai mangiato.  Definirei, piuttosto, come “insoliti” i bocconcini fritti di alligatore che ho ordinato in Florida e la bistecca di orso con contorno di broccoli gustata nel Nord della Finlandia, in Lapponia. L’alimento più “estremo”, comunque, è stato il durian assaggiato a Bangkok, in Thailandia. Un particolare frutto suppergiù delle dimensioni di un melone, dalla buccia ricca di spine spesse e appuntite, dal forte odore simile a quello delle cipolle marce o dei liquami di una fogna. L’interno è costituito da una polpa somigliante a una crema aromatizzata da un mix di diversi frutti tropicali e dalla consistenza leggermente burrosa. Sebbene da quelle parti sia definito – a torto o a ragione – il “re dei frutti”, non è un cibo per palati occidentali. Per contro l’alimento, o meglio, una delle pietanze che ho maggiormente gradito in occasione dei miei viaggi all’estero è il Roscon de Reyes – letteralmente ciambella dei Re Magi – una soffice ciambella tipica della tradizione natalizia spagnola. Alla Cervecería Catalana, a Barcellona, si trova in carta praticamente tutto l’anno. Qui la propongono con un bagna leggermente aromatizzata all’anice e guarnita con una sorta di crema inglese. Ad ogni mio viaggio in Catalogna è ormai una tappa obbligata e… sempre doppia porzione!

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