27 cose che rovinano l’atmosfera al ristorante. Seconda parte.

I cellulari nuocciono alla salute dei bambini. Lasciate a casa entrambi! Ovvero le cose che rovinano l’atmosfera al ristorante. Roberto Mirandola con la sua ironia e arguzia trova 27 fattori o motivi che possono rovinare l’atmosfera durante una cena al ristorante. Vediamo quali sono, qui la seconda parte di questi.

Ormai è un dato di fatto: mai come in passato mangiamo fuori più frequentemente e per i motivi più diversi. Pranziamo o ceniamo al ristorante, in trattoria, in osteria, alla tavola calda, per lavoro, per festeggiare qualche ricorrenza particolare, per trascorrere un po’ di tempo con gli amici oppure per provare un locale che ci è stato consigliato o che, per qualche motivo, ci incuriosisce.

Ma cosa rovina l’atmosfera quando andiamo al ristorante?

La qualità scadente del cibo è la condanna unanime che il popolo dei frequentatori di ristoranti solleva più abitualmente. Esistono molte altre ragioni, tutte però accomunate da un unico risultato: guastare la nostra esperienza risto-gastronomica. Ecco la seconda parte della nostra classifica dei 27 motivi.

27 cose che rovinano l’atmosfera al ristorante. Prima parte.

13.        FOODOGRAFI

Fenomeno che si sta diffondendo come l’incedere di un’erba infestante (oltre dieci milioni di fotografie di piatti sono condivise e commentate ogni mese su Instagram!). Anni addietro si burlavano i giapponesi che immortalavano tutto ciò che passava loro a tiro di fotocamera. E, tutto sommato, si rimarcava un difetto di buona educazione e di buon senso. Altri tempi.

14.        ILLUMINAZIONE

a)  Perché anche i ristoratori più “illuminati” trascurano l’illuminazione nei loro locali? A onor del vero non sottovalutano la lampada in sé, piuttosto la valenza che questa può avere sulla buona riuscita dell’esperienza complessiva del cliente. Questa voce, costituita da lampadari troneggianti nel centro della sala, applique dalle fogge più disparate, lampade da terra o da tavolo, si porta via una bella fetta di budget alla voce arredamento. Sembra, tuttavia, che l’attenzione sia posta più sull’estetica che sull’effettiva funzionalità, prerogativa – oggettivamente sbagliata – di molti architetti.

La luce al neon algida e spettrale di certi locali di basso cabotaggio votati all’insegna del risparmio fa apparire tutti quanti vittime di un attacco di bile. Certo, non tutti possono permettersi un corpo illuminante griffato, ma almeno saper scegliere tra una lampada dalla tonalità di luce fredda, industriale e una calda dall’atmosfera senz’altro più invitante. E poi costano lo stesso…

15.      LA REGOLA DEL 15

Si dice che l’attesa faccia parte della vita e spesso sia anche più divertente dell’evento in sé. Ma non quando è connessa all’erogazione di un servizio, come nel caso dei ristoranti.  Un pranzo o una cena dove tra una portata e l’altra trascorrono più di quindici minuti, così come attendere per lo stesso periodo il cameriere o il ristoratore per ordinare, ma anche mancanza di accoglienza, sono segnali inequivocabili dell’inceppamento dei meccanismi di smistamento delle competenze tra patron, personale di sala e comunicazione tra sala e cucina. Difficile avere vita lunga…

 16.       EFFETTO COCKTAIL PARTY

       Andare al ristorante per chiacchierare con un amico, con il partner, con la famiglia e non riuscirci a causa del brusio assordante rende insopportabile il pranzo o la cena. Basta che in un luogo ci sia più di una persona che parli per creare un effetto a catena: tutti parlano con un tono di voce sempre più alto. A ciò si aggiunga del rumore di fondo: la musica a volume troppo elevato, brusii di impianti tecnologici, i rumori provenienti dalla cucina. Con conseguenze negative anche per il ristoratore: il senso di affaticamento dovuto al rumore è noto in psicologia come effetto cocktail party. Concentrarsi in mezzo a molte fonti di rumore genera un dispendio di energie che si trasforma in stress. Per questo quando si è finito di mangiare in un locale rumoroso rimangono solo un senso di spossatezza, un brutto ricordo e non ci si torna più. Soluzione (per il ristoratore): trattare il soffitto, che già di per sé risolverebbe l’80% del problema, installando pannelli fonoassorbenti oppure posizionare complementi d’arredo come poltrone, divani, tappeti o appendere grandi quadri che riducono il tempo di riverberazione.

17.      VORREI MA NON POSSO

Nella vasta galassia della ristorazione italiana (e non solo) esistono locali gestiti da patron e chef dalla rarefatta antipatia, dalla dubbia saccenteria e dall’ego smisurato con velleità e presunzione da alta cucina, ma che in realtà non possiedono né i mezzi né il talento o l’estro per tentare la scalata alle vette risto-gastronomiche, men che meno dei buoni cucinieri. E che dire degli errori di ortografia nel menu, dei piatti dai nomi ridicoli o eccessivamente lunghi, con troppi ed inutili vezzeggiativi o preceduti dall’articolo determinativo?

18.        PIETANZE CHE ARRIVANO A RATE

Meglio aspettare rassegnati anche trenta minuti il proprio piatto e banchettare tutti assieme piuttosto che dover mangiare la pasta incollata perché si è dovuto attendere la frittura di pesce del commensale. Anche questo è un vizio presente in molti locali: servire a rate! Una regola per i ristoratori, anzi una delle prime regole, è servire i clienti di ciascun tavolo tutti insieme!

19.        CANI AL RISTORANTE

a)   Sebbene non esista ancora una legge a livello nazionale che vieti l’ingresso dei cani nei ristoranti, tranne quello in cucina e in dispensa, il cane al ristorante è una questione di rispetto per gli altri clienti e per il personale addetto che sovente non li tollerano. Al contrario, spesso è più un capriccio del padrone che una reale necessità.

b)  È questione di senso civico: il cane al ristorante come in hotel, al bar, al supermercato, così come in qualsiasi altro esercizio commerciale, non dovrebbe entrare. Primo perché qualcuno potrebbe esserne infastidito e il rispetto delle persone è prioritario; secondo perché c’è chi potrebbe aver paura del cane ed imporre la sua presenza è una violenza; terzo perché è un problema di igiene e la misura della “normalità” è stata ampiamente superata. La moda cinofila dilagante che porta a venerare il cane e la percentuale di sociopatici che odiano i loro simili, ma baciano i loro “familiari” pelosi a quattro zampe, stanno raggiungendo livelli preoccupanti.

20.         BAGNO

Se mi imbatto in un bagno sporco, penso subito che anche la cucina non sia immacolata, ma anche i servizi igienici modello stazione di servizio autostradale, vecchi ed angusti (alcuni ancora provvisti – si fa per dire – degli squallidi e disagevoli gabinetti alla turca) o privi di riscaldamento ed acqua calda sarebbero entrambi validi motivi per non ritornare in quel locale.

21.         PANE

Diceva Burt Lancaster, il famoso attore americano: «Giudico un ristorante dal suo pane e dal suo caffè». In una trattoria o in ristorante di medio o modesto livello non occorre pretendere pagnotte da alta panificazione preparate dallo chef. Del pane comune fresco, fragrante, che non prevarichi il gusto delle pietanze e non renda “polifonica” la digestione, è più che sufficiente.

Agrodolce

22.         VINO

Uno dei misteri ancora irrisolti nel campo della ristorazione è il ricarico sui vini. Fino a qualche tempo fa vigeva un’equa regola non scritta dove il prezzo al tavolo della bottiglia si otteneva moltiplicando per tre la cifra pagata al fornitore. Oggi in qualsiasi lista dei vini che si rispetti è difficile scorgere qualcosa di dignitoso a meno di 20 euro a patto che non si opti per il vino della casa dal prezzo sì calmierato, ma quasi sempre una ciofeca, che martellerà la scatola cranica dell’ignaro cliente per il resto della giornata.

23.        INSALATA

Trovo semplicemente maleducato e irrispettoso nei riguardi di chi ci invita – ancor peggio se in un locale rinomato, di cucina etnica o magari conosciuto per qualche particolare specialità – ordinare una banalissima insalata (o la famigerata “insalatona”) come piatto unico. Proporrei ai ristoranti di mettere in carta le voci insalata mista e insalatona a prezzi da estorsione, giusto per scoraggiare questa opinabile, modaiola, finta pratica salutistica.

24.       MENU CHILOMETRICI

Lunghi elenchi o menu con molte pagine potrebbero significare una cucina poco fresca, con impiego di basi pronte, prodotti surgelati e scarsa attenzione al dettaglio. Un’offerta con decine di pietanze costringe a fare ampie scorte e a ridurre i tempi di preparazione, spesso a scapito della qualità di un piatto. Sempre meglio pochi, di qualità e con prodotti di stagione.

25.        CONTO

Teoricamente la richiesta del conto dovrebbe essere l’unico risvolto libero da incognite, un invito corretto al pagamento che viaggia sul binario dello scontrino fiscale e della fattura. In realtà 4-5 volte su 10 succede di subire i magheggi del ristoratore o patire l’ambigua e sibillina specialità post-caffè del conto estrogenato. Ecco allora accorgersi che i prezzi sul conto non corrispondono alle cifre indicate sul menu oppure della presenza di alcune pietanze sul conto, che a guardar bene, non sono mai state ordinate. Ma l’apoteosi, il coup de théâtre, avviene quando arriva il pezzo di carta ben stampato, di formato convenzionale, con il nome del ristorante in evidenza, l’indirizzo, il telefono, lo spazio per la quantità e la natura dei beni. Sembrerebbe perfetto, ineccepibile. Peccato manchi il numero di partita IVA dell’esercizio, la numerazione fiscale e sul bordo sia riportata con caratteri lillipuziani la dicitura – Non Fiscale – o – Non valido ai fini fiscali. Appena usciti, verrebbe istintiva una recensione via smartphone. Questa volta non a Tripadvisor, ma alla Guardia di Finanza…

26.       DOLCI E BEVANDE “ERMETICHE”

Da qualche anno dilaga l’abitudine da parte di molti ristoranti, dettata probabilmente dal locale di tendenza americano di turno che nel frattempo avrà senz’altro abbandonato da tempo questa inusuale pratica, di servire il dessert in un vaso ermetico monoporzione in vetro con scrocchetto metallico al pari dei cocktail serviti in contenitori anch’essi in vetro e provvisti di filettatura. A parte l’uso improprio e discutibile, per il primo occorrerebbe la lingua di un formichiere per raccogliere l’intero contenuto, mentre per il secondo il rischio di sbrodolarsi è un’ipotesi – ahimè – tutt’altro che peregrina. Passerò per antiquato e provinciale, ma preferisco di gran lunga delle normali coppette al pari dei classici bicchieri da cocktail.

27.      IL RESTO… MANCIA

La mancia non è un automatismo e non deve essere una forma di elemosina. La lascio se sono stato soddisfatto dal servizio e dal cibo. Se penso di tornare, elargisco una ricompensa abbastanza sostanziosa in maniera da farmi ricordare dal personale. Lo considero un investimento per la visita successiva e solitamente funziona. La lascio per meriti sul campo (sempre nei paesi dove è di norma), non ai lecchini di professione. Sono contrario alla mancia in Italia, dove il personale – soprattutto quello in servizio presso i locali più rinomati – percepisce il proprio stipendio mensile come lo percepisce il sottoscritto. E a me nessuno elargisce mance se riesco a gestire un’emergenza o se completo un lavoro prima della scadenza prevista. Inoltre penso che la mancia abbia un impatto negativo in quanto spinge qualcuno a svolgere il proprio lavoro in maniera professionale solo in presenza di un potenziale obolo, quando invece è regolarmente pagato per svolgerlo. Discorso diverso all’estero, dove in alcuni paesi la paga dei camerieri è costituita al 70-80% dalle mance.