Roberto Mirandola dopo un suo viaggio in Spagna racconta le usanze dell’aperitivo, il celebre “ir de tapas” come lo chiamano gli spagnoli. Uno stile di vita, uno stile di food che ci fa scoprire con la sua immancabile ironia.

Strana nazione per me la Spagna. Nutro sentimenti contrastanti per questo Paese: un’atavica idiosincrasia in ambito sportivo che ha nel calcio la sua massima acrimonia e, per convesso, una predilezione per la cucina seconda solo a quella italiana. Ragion per cui a ogni mia visita agli affini iberici, prediligo con loro tranquille dissertazioni enogastronomiche e ricche cene al ristorante a insidiosi confronti su temi sportivi che, all’insegna del reciproco campanilismo, finirebbero per sfociare in argomentazioni politico-economiche con gli inevitabili scambi verbali di artiglieria pesante.

Se Madrid è una capitale magniloquente che parla di passato imperiale grandioso, di artisti sublimi, di musei strepitosi, Barcellona – la mia usuale destinazione – è tutta diversa ma, a ben vedere, ogni città della Spagna lo è. Tra le passioni comuni a queste due città, il piacere dell’aperitivo che poi può diventare cena, nel senso che si va al bar a bere una coppa di Cava (un vino spumante metodo classico prodotto principalmente in Catalogna, tra Barcellona e Tarragona), un bicchiere di tinto de verano (vino rosso con ghiaccio e aromatizzato con aranciata o limonata) oppure una caña (un bicchiere di birra) e poi ci ferma più a lungo del dovuto. Si inizia con un paio di tapas e poi un’altra e così via.

Tapas, una tira l’altra

‘Tapas’ è una sorta di parola magica per accedere a un universo di gusto: centinaia di preparazioni, tutte da provare in piccole, infinite portate. Le tapas sono delle versioni in miniatura dei piatti tradizionali spagnoli e sono molto più sostanziose ed elaborate dei nostri tramezzini. Di solito, si parte con l’idea dell’aperitivo e si aggiungono piatti fino a comporre una cena principesca. Si può anche fare un pasto itinerante, ordinando due tapas in ogni bar della città e continuando il giro fino a saziarsi, quello che tradizionalmente si chiama tapeo o Ir de tapas. Pesce innanzitutto, e poi carni di ogni tipo, verdura, uova… Le tapas accolgono gli ingredienti più diversi, anche se i ‘mariscos’ – crostacei e molluschi –  sono i preferiti. Il termine ‘tapas’ si potrebbe tradurre con stuzzichini o assaggini, ma forse la definizione più adatta è “bocconcini” perché si tratta di piccole preparazioni come crocchette, fritti, tartine, spesso infilzate da uno stuzzicadenti per comodità.

La Real Academia Española – l’Accademia della lingua spagnola –  definisce la tapa come una qualsiasi porzione di alimento solido capace di accompagnare una bevanda. Nonostante questo, la tapa possiede diversi nomi con le inevitabili varianti lessicali a seconda della regione spagnola in cui ci si trova. Nel nord del Paese (La Rioja, Paesi Baschi, Navarra e Castiglia y León) è chiamata ‘pintxo’ e ‘picadeta’ nella Comunità Valenciana. In ogni caso sembra che la parola ‘tapa’ derivi dall’antico uso di ‘tapar’ – ossia il  gesto di coprire i bicchieri di vino con un pezzo di pane o di prosciutto per evitare che vi cadano insetti o altre impurità.

Tutto può diventare Tapas

Tutto può diventare tapas, ma esistono dei classici celebrati ogni anno il terzo giovedì di giugno con El dia mundial de la tapa: le croquetas de bacalao (crocchette di merluzzo), le croquetas de patata (crocchette di patate),  i chopitos (calamaretti fritti), il pulpo a la gallega (bocconcini di polpo alla galiziana aromatizzati con paprica), i boquerones en vinagre (acciughe in una soluzione di aceto, acqua e sale), i boquerones fritos (acciughe fritte), le patatas bravas (letteralmente ‘patate selvagge’ sono patate a tocchetti saltate in padella  condite con passata di pomodoro, aceto e paprica), le albondigas (polpette di carne di manzo di maiale macinata), i pintxos (fette di pane infilzate in uno stecchino e guarnite con ingredienti vari come prosciutto, peperoni, formaggio, frittata, pezzi di salsiccette), le fette di tortilla (soffice frittata con un ripieno di patate fritte a cubetti e cipolla), i pimentos del padrón (letteralmente peperoni del padrone. Peperoncini verdi fritti in olio d’oliva e conditi con sale grosso). Le tapas calde sono più elaborate e spesso si basano sulla frittura. Quelle fredde, invece, hanno una grande varietà di ingredienti: aragosta, gamberi, scampi, pesci conservati, formaggi…

E naturalmente jamón serrano, prosciutto, salsicce e altri salumi. L’elenco continua con gli huevos rotos (letteralmente uova rotte. Uovo al tegamino su un letto di patate fritte in padella e  prosciutto crudo a striscette), il salpicon (antipasto di mare preparato con bocconcini di merluzzo, polpo, gamberi, cozze. Il pescato viene poi mescolato con sedano e cipolla, irrobustito con limone e aceto e infine guarnito con aglio e olio), le aceitunas (olive in salamoia talvolta ripiene con un’acciuga o un pezzo di peperone rosso), i búsanos (murici bolliti successivamente conditi con qualche goccia di limone), la ensaladilla rusa o ensaladilla (insalata russa. Talvolta, la versione spagnola comprende anche l’aggiunta di tonno), calamares a la romana (calamari marinati nel limone, immersi in una pastella arricchita da lievito e zafferano e poi fritti. Si servono caldi e croccanti), pa amb tomàquet (letteralmente pane al pomodoro. Filoncini di pane tagliati a metà e condito con mezzo pomodoro maturo, olio e sale), gli alcachofas as laminadas fritas (carciofi fritti), aioli o ajiaceite (composto di limone, olio d’oliva e aglio pestato. Si mangia sul pane tostato), queso de cabra en aceite (formaggio caprino a cubetti in olio d’oliva).

Gilda

La tapa più famosa? Senza dubbio la Gilda, una  sorta di mini spiedino composto da una o due acciughe, altrettante olive e uno o due peperoncini verdi allungati. Fu creata nel 1946 a San Sebastián, città dei Paesi Baschi in onore di Rita Hayworth, la prorompente e “piccante” attrice americana interprete dell’omonimo film uscito qualche mese prima.

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Tapas in Italia

Anche in Italia, a Venezia, esiste la tradizione delle tapas. Ovviamente hanno un nome diverso: da quelle parti si chiamano, infatti, cichéti. Se siano migliori non è dato sapere (anche se personalmente li reputo alla pari in quanto a gusto e varietà), ma quel che è certo e che sono stati inventati prima delle “cugine” spagnole. L’etimo dialettale cichéto – dal latino ‘ciccus’, piccola quantità – era stato coniato per indicare tartine e stuzzichini prevalentemente a base di pesce serviti nei bàcari, le tipiche osterie veneziane: crostini di baccalà mantecato, alici marinate, polipetti in umido, ma anche specialità fritte come le sarde in saor. E, all’usanza dell’ir de tapas, i veneziani rispondono in dialetto con il loro andar a cicheti.  Ma che si chiamino tapas, pintxos o cichéti, per superare qualsiasi barriera gastronomica e per unire i buongustai spagnoli e veneziani c’è una sola, grande goduria: mangiare con le mani! Con buona pace di chi li chiama e li considera – a torto – finger food.