‘I FOOD DESIGNER’ diventa un brand e ripensa l’esperienza di consumo

In Italia si è iniziato a parlare di Food Design nel 2002: tutto nacque da un’intuizione lungimirante di Paolo Barichella che trovò una stretta connessione tra il mondo del food e della ristorazione e il mondo del Design. Ricerca, sostenibilità, innovazione e tecnologia sono i requisiti indispensabili per poter parlare del Design inteso nel suo autentico significato di “processo per progettare un prodotto, un servizio o un’esperienza” e allo stesso tempo sono requisiti importanti anche in cucina e nell’industria alimentare. Senza dimenticare l’aspetto più ludico, la sperimentazione e la creatività che esiste in entrambi i settori.

Il Food Design

Se vogliamo dare una definizione tecnica del Food Design possiamo dire che è “la progettazione degli atti alimentari (Food Facts), ovvero l’attività di elaborazione dei processi più efficaci per rendere corretta e gradevole l’azione di esperire una sostanza commestibile in un dato contesto, ambiente o circostanze di consumo”.

Dal quel lontano 2002 il Food Design come disciplina cresce in modo consistente e si configura sempre più nel dettaglio, grazie al lavoro di un gruppo di professionisti che dal 2006 lavoro in sinergia, ognuno con la sua specificità, mettendo in pratica un vero e proprio Manifesto.

Il Manifesto dei Food Deisgner

Loro sono Paolo Barichella, Mauro Olivieri, Ilaria Legato, Marco Pietrosante e Francesco Subioli, meglio conosciuti come “I Food Designer”.  Un gruppo sempre attivo che fa della ricerca e della formazione la base per la crescita e lo sviluppo di questa affascinante materia che ha mosso i primi passi intorno al singolo prodotto e oggi trova sempre più applicazione nella ristorazione, nella sala e nella creazione di food format, ma anche nel settore ospitalità e nella comunicazione con un discorso più ampio di identità territoriale.  Si fa un salto concreto verso l’esperienza di fruizione del servizio.

Come loro stessi dichiarano: “Crediamo nell’atto creativo ma siamo consapevoli che per arrivare all’obiettivo occorra un’attenta costruzione dei processi progettuali e produttivi. I prodotti, i servizi e i sistemi progettati dal Food Designer, sono atti pensati per animare un progetto «umano centrico» e facilmente fruibile. Crediamo in una progettualità che usi un linguaggio etico e che tenga conto di un processo sostenibile nelle diverse fasi di ideazione, costruzione, produzione, vendita, utilizzo e dismissione. Progettare per il Food significa creare prodotti, servizi e sistemi per «dare forma» a un bisogno di consumo ricco di fattori simbolici oltre che funzionali e prodotti e servizi funzionano e comunicano se si concentrano sul «cliente» come «persona» e mettendo al centro i valori umani.”

Li abbiamo intervistati tutti, ad ognuno di loro abbiamo posto una domanda per indagare sul tema della responsabilità progettuale in un’ottica circolare del prodotto o servizio, sull’applicazione nel mondo sala e sulle declinazioni ed esigenze del momento attuale.

Progettare per il food implica responsabilità nella scelta dei materiali, nel ripensare un riutilizzo o l’assenza di spreco?

Risponde Francesco Subioli: “Nel Dna del progettista dovrebbe far parte un concetto etico di rispetto paritario per il pianeta, gli animali, gli esseri umani. Dunque l’attenzione all’utilizzo delle materie prime, siano esse commestibili o meno mi sembra una fondamentale base di partenza. Ma se è abbastanza facile pensare ad una scelta sostenibile nel caso di materiali per la costruzione di luoghi dedicati alla vendita e al consumo di cibo o alla produzione di oggetti per le cucine e i ristoranti, è un’impresa assai ardua districarsi nel dilemma della conservazione del cibo per lo stoccaggio, il trasporto e la vendita al dettaglio. Siamo ancora in alto mare e la scelta drammatica è tra l’utilizzo della plastica per imballi o sprecare il cibo perché non ci sono modi alternativi per conservarlo. La risposta antispreco è logica, l’unico vero intervento che possiamo fare è una scelta ragionata per il miglior smaltimento o riciclaggio possibile che parta dalle aziende produttrici. Non basta, bisogna non dare per scontato che da qui all’eternità non ci sia alternativa, una partnership fra ingegneri, designer, aziende porterebbe sicuramente a soluzioni meno deleterie, con enormi guadagni economici insieme a infiniti benefici per il pianeta”.

Si parla spesso e in modo abusato di esperienza nell’ambito enogastronomico.  Cos’è la vera esperienza nel food e come si costruisce?

Risponde Mauro Olivieri:Intanto sfatiamo il mito, che l’unica esperienza che si possa fare è soltanto davanti a un piatto pluristellato o in particolari condizioni. Sfatiamo anche l’idea che mangiare con gli occhi a volte basti alla completezza dell’esperienza, ancor più sfatiamo il fatto che l’esperienza bisogna per forza viverla. Per mia convinzione cerco sempre e in tutti i modi di non stare dentro a recinti precostituiti che nascono e proliferano dietro a stereotipate convinzioni come il caso dell’esperienza appunto, dentro e intorno a regole che qualcuno ha messo in circolo. Credere che ogni cosa legata al cibo debba esprimere un’esperienza non può e non deve diventare elemento su cui costruire un trasferimento di qualcosa; il cibo antropologicamente è già l’esperienza più alta. Il piacere del mangiare lo si può costruire su livelli edonistici relativi, in cui la predisposizione gioca un ruolo necessario. Ecco che la mia esperienza non è detto che sia la tua e allora diventa difficile per chi produce esperienza gastronomica e enologica orientare un sistema verso sinestesie e rielaborazioni nella progettazione di un consenso collettivo. È il caso del progetto Ottavo Senso una esperienza che segue un principio base, quello della non esperienza a tutti costi, un approccio progettato con tutti gli attori in campo: il luogo, la luce, la sedia, gli chef, la sala, i rumori, i suoni, i camerieri, il consierge da sala. Ottavo Senso è la sintesi per dare una nuova veste all’idea dell’esperienza non più solo piacere visivo, gustativo, partecipativo ma anche narrativo e esplorativo, secondo una cadenza orientata di avvenimenti che aiutano a esprimere semplicemente piacevolezza. La voglia di esperienza è lecita, purché sia intima, singolare, autentica, sentita, respirata, vibrante, semplice, piena. La ricerca ossessiva dell’esperienza, spesso nasconde delusioni. Guidare all’esperienza deve essere un modo per alimentare una sorta di personalizzazione all’esperienza stessa. Educhiamoci, conosciamoci, elaboriamo un criterio nostro non condizionabile per vivere e partecipare non più a una semplice Esperienza ma a qualcosa di più, come l’Empiria, la capacità di e-sperimentare lo spettacolo di un particolare nella molteplicità di particolari”. 

Esperienza non solo nel piatto ma anche in sala, all’interno di un luogo che diventa un meccanismo sincronizzato fatto di spazi, persone in movimento, accoglienza, atmosfera. Il ristorante può essere pensato come un format esperenziale?

Risponde Ilaria Legato:l Food Design è un processo attraverso cui si arriva a realizzare un prodotto e un servizio per il mondo del food considerando molti aspetti, tra cui l’aspetto umano centrico. Si progetta sempre per dare forma a un bisogno, strettamente legato alle persone e alla loro identità. Questo aspetto identitario che nel progetto acquista un peso incisivo porta con sé una narrazione che lo rende unico e lo arricchisce dal punto di vista valoriale. Si tratta quindi di celebrare il rito ridisegnando completamente tutta la filiera delle attività, prendendo in considerazione le interazioni che intervengono tra gli attori sia interni che esterni agli spazi. Si costruisce un “copione” come in teatro, professionisti destinati a entrare in scena nelle varie fasi, di cui è necessario definire tempi e modalità precise di intervento e relazione”.

Che rapporto c’è tra food design, comunicazione e digitale?

Risponde Ilaria Legato: “La comunicazione e il digitale sono elementi naturali e imprescindibili per diffusione dei valori di un progetto e nello stesso tempo, gli strumenti ormai insiti nella vita contemporanea di tutti noi diventano elementi indispensabili nella progettazione. Per esempio l’utilizzo del web per il delivery o gli stessi menu consultabili tramite qr code dai clienti ristoranti”.

Che lingua parla oggi il food e il food design?

Risponde Marco Pietrosante: “L’emergenza che abbiamo vissuto e che stiamo vivendo, ha reso palese la centralità del cibo nell’universo del vivente. Il mondo del progetto ha intercettato da tempo questo messaggio e con l’attività legata al food cerca di individuare le questioni più coerenti con la contemporaneità. Per questa ragione il food design oggi pone la sua attenzione sulle discrasie del sistema, su quelle inefficienze che possono diventare ingiustizie sociali. Lo spreco e la mancanza, l’iperproduzione e la carestia, l’obesità e la denutrizione sono tutti fattori che portano all’insicurezza alimentare sia nell’uno che nell’altro verso. È su questo terreno che si vedono le cose più interessanti nel mondo del design, non solo del cibo. Si tratta di una lingua universale che coinvolge migliaia di progettisti in tutto il mondo”.

Cosa devono sapere e saper usare i nuovi food designer?

Risponde Paolo Barichella: “I nuovi Food Designer devono saper usare ad arte la tecnologia alimentare per poter essere in grado di creare prodotti nuovi e innovativi, ma anche sistemi in grado di portare valore aggiunto e risolvere nuovi bisogni. Mai come ora c’è la necessità di ripensare nuovi modelli di ristorazione in grado di dare risposte alle richieste di un pubblico che ha mutato repentinamente il proprio stile di vita e di lavoro.
Saper innovare è la chiave per lo sviluppo dei modelli di ristorazione del futuro
”.

L’emergenza vissuta ha cambiato le nostre abitudini di consumo alimentare e qui il Food Design interviene in modo funzionale su un campo da gioco in cui le regole di prima non sono più valide. Qualche esempio?

Risponde Paolo Barichella:Un esempio è il progetto di Open Innovation al quale noi abbiamo aderito per dar vita a un Self Restaurant all’interno del coworking di DesignTech HUB presso MIND, dove gestiremo l’area food con proposte Smart Meal. Abbiamo riprogettato totalmente il modo di mangiare sui luoghi di lavoro in funzione di come l’effetto Covid lo ha rivoluzionato. La pausa pranzo è stata staccata dal concetto di “pasto” rendendola smart, eliminando per sempre il self service, le sale mensa e i bar “mangiatoia” che sono ormai sistemi figli di un approccio antico e ampiamente superato. Uno Smart Meal deve soprattutto essere flessibile e seguire il collaboratore di un’azienda anche durante lo smart working e in nuovi spazi e modalità di accesso alla food experience quando è in azienda e lavora con il team. Si potrà accedere a una Smart Kitchen dove completare da soli delle proposte di piatti di altissima qualità, progettati per essere ultimati in un paio di minuti in completa autonomia.  

I prodotti che verranno utilizzati sono quelli di Ultimo Tocco, il nostro recente progetto di delivery che è partito da Milano a metà giugno. Un delivery di design grazie a specifiche tecniche di preparazione e speciali metodologie che prevedono due tempi differenti di preparazione e finitura. Ultimo Tocco, progettato da me e Mauro Olivieri, infatti non è un ristorante che fa anche delivery, ma un vero e proprio laboratorio creativo dove i cibi vengono preparati per essere consumati a distanza di luogo e di tempo. Si sceglie, si ordina e si prova il piacere di completare a casa o in ufficio, in pochissimi minuti e all’ultimo momento, quello che si vuole mangiare a pranzo o cena.

Abbiamo “unito” due cucine distanti, ordinando sul sito www.ultimotocco.it si possono scegliere risotti, pasta, piadine, aperitivi, dessert con prezzi accessibili e sempre disponibili. Ordinabili sempre, arrivano a casa o in ufficio tramite Glovo in buste monoporzione o in contenitore di polipropilene completamente riciclabile o riutilizzabile. Tutte cibi inoltre che possono essere anche conservati in frigo anche per 2/3 giorni e consumati quando si vuole, senza l’ansia di doverli ordinare all’ultimo momento quando si ha già fame”.