Il vino è una realtà a tratti utopica, non sempre comprensibile, che è la realtà su cui Giovanni Di Tomaso, docente, ricercatore e consulente, si è voluto focalizzare nel suo libro In vino business – Utopia, economia e operatività della wine list al ristorante – edito da Dario Flaccovio Editore e all’interno della collana Accadde Domani FuTurismo diretta da Nicoletta Polliotto. Per capire meglio il rapporto che un ristoratore o un sommelier deve avere con il vino al di là del calice e soprattutto che tipo di approccio serve per fare business con il vino e come saperlo gestire abbiamo fatto una serie di domande a Giovanni Di Tomaso che ci ha risposto in modo puntuale e chiarito molti aspetti nebulosi su questo argomento.
Il vino è sempre stato un argomento di conversazione prezioso, uno di quei temi che sa generare interesse in modo trasversale e che oggi più che mai è al centro anche di una comunicazione di settore diffusa. Il vino è uno dei topic, insieme al food in generale e alla ristorazione. Si moltiplicano i corsi, i sommelier e con loro gli influencer e i loro mille profili Instagram in cui si raccontano di super bevute, di etichette blasonate, di chicche insolite e segreti di cantine nascoste. Questa la parte più visibile a noi, che quotidianamente scrolliamo i social e veniamo bombardati da esperti del vino e sedicenti tali, tutti ovviamente bravi a riconoscerlo, a capirlo, a degustarlo e ad abbinarlo. Ma quanti poi sono veramente bravi a venderlo? Quanti sono quelli che sapendo apprezzare il vino e riconoscerne qualità e valore lo sanno collocare nel giusto modo in una carta dei vini e dargli un prezzo. O al contrario quanti sono quei sommelier e ristoratori capaci di creare una carta di vini che funzioni per il loro locale, target e menu senza eccessi e senza lavorare di immagine, ma di sostanza? Sicuramente non sempre chi degusta non amministra, e a meno che non ci siano studi ed esperienze di management della ristorazione essere un bravo sommelier non equivale a saper fare un buon management del vino.
Una realtà a tratti utopica, non sempre comprensibile, che è la realtà su cui Giovanni Di Tomaso, docente, ricercatore e consulente, si è voluto focalizzare nel suo libro In vino business – Utopia, economia e operatività della wine list al ristorante – edito da Dario Flaccovio Editore e all’interno della collana Accadde Domani FuTurismo diretta da Nicoletta Polliotto (che abbiamo intervistato qui).
Giovanni Di Tomaso nella sua esperienza e professionesviluppa modelli inediti di gestione economica e operativa per ristoranti e hotel. Formatosi presso grandi scuole e grandi hotel e avendo investito nel suo piccolo con successo, fonda la sua filosofia professionale su una concezione solidale del lavoro, che assegna gli stessi valori e priorità agli obiettivi d’azienda, della clientela e di ciascun dipendente.
Con In vino business Di Tomaso cerca di rispondere concretamente a domande tipo “Quanti vini è consigliabile avere nella lista? Come prezzarli? Come descrivere un’etichetta? e prova anche a guidare aziende, sommelier e manager della ristorazione e dell’hotellerie come strateghi, venditori e analisti, fornendo approcci gestionali, modelli inediti, strumenti e indici specifici, nonché un’interpretazione del wine management.
Per capire meglio il rapporto che un ristoratore o un sommelier deve avere con il vino al di là del calice e soprattutto che tipo di approccio serve per fare business con il vino e come saperlo gestire abbiamo fatto una serie di domande a Giovanni Di Tomaso che ci ha risposto in modo puntuale e chiarito molti aspetti nebulosi su questo argomento.
Prima domanda un po’ scontata, ma obbligatoria, come possiamo descrivere e/o raccontare In vino business?
In Vino Business è un libro-guida che mi sarebbe piaciuto poter consultare quando avevo poco più di vent’anni e l’autonomia nel gestire i vini per un ristorante-laboratorio universitario e poi in hotel di grandi catene e, forse, ancor di più quando ho investito in proprio. Al netto delle dovute eccezioni, oggi, come 30 anni fa, la scelta delle etichette, le forniture ordinate, i prezzi, le vendite in sala, la progettazione di una lista vini e il wine marketing per ristoranti seguono il modello del così fan tutti, proprio per la mancanza di letteratura didattica. L’iniziale improvvisazione, tuttavia, e i tanti errori e gli altrettanti insegnamenti (dolorosi) che ne sono derivati hanno permesso di raggiungere grandi risultati come, ad esempio, il diffuso utilizzo del mark up regressivo per i prezzi. Ma per ogni risultato virtuoso raggiunto restano altri vuoti da colmare: Come si stima il giusto numero di bottiglie per ogni etichetta da avere in cantina? Come si forma il personale alla vendita dei vini? Quali indici seguire per rendere i vini più remunerativi e le scorte più sostenibili? Come può la lista dei vini attrarre nuovi ospiti? Le risposte che dà il testo sono tante.
Giovanni Di Tomaso, la wine list perfetta esiste o è utopia?
Rispondere a questa domanda è come a chiedersi come dovrebbe essere un catalogo musicale perfetto. Difficilmente si troverebbero due liste identiche. Parlando di un catalogo rivolto a tutti, quindi, diventerebbe perfetto offrire tutto ciò che esiste e, quindi, nel caso della wine list, tutte le bottiglie di vino di tutte le annate. Perché questo succede con i vini e non con il cibo? Nel momento in cui si prenota la cena in un ristorante, in realtà, si sceglie proprio da un vastissimo catalogo che tenta di accontentare tutti. Compiuta quella scelta si è già deciso che tipo di ambiente e menù aspettarsi. Poi, all’interno del locale, quel menu di ricette è tenuto ad accontentare solo quella clientela e non deve nemmeno tentare di competere con i menù di ristoranti appartenenti ad altre tipologie, rischiando altrimenti di distruggere l’identità del locale. La lista dei vini, invece, rappresenta un elemento complementare a quella del cibo e deve far fronte a più preferenze e necessità possibili a partire dai prezzi, tipologie dei prodotti, territorio di provenienza, vitigno, ecc. Rispondo quindi: utopia.
Nel rapporto vino e ristorazione cosa manca secondo Giovanni Di Tomaso?
In generale, un po’ di ordine e obiettivi condivisi per tutte e le fasi del wine management. La sfida è riuscire ad avere più etichette possibili in lista e meno bottiglie in cantina. La novità è che esistono innovativi strumenti e best practice che aiutano a trovare e mantenere quel punto di equilibrio. Sempre in generale sarebbe necessaria una revisione del servizio a tavola. Il ruolo del cameriere oggi mi pare un po’privo di senso: portare un piatto dalla cucina alla tavola è una mansione che può svolgere un robot, ma avendo a disposizione in sala esseri umani dotati di sensi e cervello, e che costano un quinto dei ricavi, significa sprecare risorse e opportunità. Ecco perché il servizio va ripensato stimolando a far uscire fuori i tratti più brillanti e la personalità degli operatori: ognuno ha i suoi pregi, bisogna far leva su di essi e trasformarli in super poteri. Ma il mio invito è più ampio e prevede la messa in discussione di ogni elemento del e cambiare se la l’alternativa scelta risulti attrattiva per il mercato, sostenibile economicamente e coerente al concept del locale. L’obiettivo, a quel punto diventa dare una personalità unica al proprio servizio a tavola, tanto da fare la differenza.
Dalla tua esperienza quanto sono veramente preparati i ristoratori italiani sul vino?
Facendo riferimento al passato, mi sento di dire che noto sempre più preparazione. La conoscenza è più accessibile e alla portata di tutti, anche se da sola non basta, per conoscere veramente i vini bisogna berli e ricordarsene, e questo resta identico al passato. In un suo libro Kurt Vonnegut offre una risposta a una domanda impossibile. Non ricordo esattamente le parole ma il senso era: per riuscire a capire se un quadro è oggettivamente bello bisogna aver guardato un milione di quadri. Per i vini immagino sia la stessa cosa. Per tutto il resto, oggi ci si forma di più, si trovano montagne di informazioni sui prodotti ed è più facile “raccontarli” a tavola.
E sul management del vino e della sua carta nel loro ristorante? Si tende a fare da soli o ci si affida a commerciali e distributori, anche in modo controproducente.
Purtroppo, in fase d’apertura, già in assenza di dati storici, se manca anche un’attenta analisi di mercato e qualche altro riferimento necessario, si corre il rischio che la scelta delle etichette finisca per riflettere i gusti di chi la fa e le necessità dei fornitori. In qualche altro caso, ho visto anche all’opera pseudo-consulenti acquistare per poveri malcapitati decine di etichette di bollicine, là dove ne sarebbero bastate meno della metà. A questa mia obiezione gli ho sentito rispondere candidamente che con quei volumi si erano trovati bene in un locale ubicato in un mercato sulla sponda opposta della galassia.
Quali sono le etichette che un ristorante deve per forza avere in carta?
Mi sentirei di rispondere niente. Nel senso che bisogna prima rispettare lo stile di cucina e il menù del cibo, la categoria d’appartenenza, i gusti del mercato e del momento. Ma se dovessi far riferimento a qualche etichetta specifica, oggi, guarderei alla lista “top 100” di Wine Spectator. Le 100 etichette inserite rappresentano il miglior rapporto qualità prezzo oggi (diverse etichette hanno prezzi anche accessibili a tutti). La fonte è talmente autorevole da influenzare i prezzi di mercato. Ci sono vini che andrebbero acquistati oggi e inserito in lista solo tra un paio d’anni, quando il loro valore sarà aumentato ulteriormente, applicando un giusto mark up sull’attuale valore di mercato. E queste etichette non solo rappresentano ottimi investimenti per la remuneratività ma anche per il ritorno d’immagine e di appeal dell’intero ristorante.
Come fare a orientarsi e sopravvivere nell’offerta enologica smisurata che abbiamo oggi?
Bisogna iniziare cercando i fornitori di fiducia. Io inviterei anche a comunicare tra competitors. Da noi è una pratica per niente comune ma aiuterebbe tutti a lavorare meglio. Se il successo del ristorante dipende da quell’informazione che sfugge, significa che il business è talmente fragile che basta un piccolo calo dei volumi per fallire, se invece si è sicuri di sé perché non offrire aiuto agli altri? Perché essere gelosi custodi di ciò che abbiamo imparato? Tornando al fornitore di fiducia, è qualcuno che conosce le problematiche dei vini al ristorante e si adopera per aiutare a risolverle, facendo innanzitutto provare i prodotti sia ai ristoratori che alla clientela (in tenuta) e ai dipendenti (in azienda). Chi è disposto a farlo? Chi è sicuro della qualità dei propri prodotti. Inoltre, con quel tipo di produttore-distributore si possono attivare modalità simili al conto vendita, molto meno radicali ma comunque favorevoli. Ma per realizzare e completare la Carta si deve considerare tutto, distributori che passano ogni due mesi, acquisti on line, l’enoteca e persino i siti d’asta. Il problema è all’inizio (si acquisti il meno possibile), in seguito dopo un solo mese, le analisi permetteranno di valutare ogni singola etichetta e indicare come comportarsi in termini di prezzi, acquisti e vendite.
Da un punto di vista della comunicazione il vino è diventato un argomento che appassiona tanti, discusso e su cui molti si improvvisano forse solo per la voglia di apparire. Qual è la l’opinione di Di Tomaso in merito?
Il prodotto vino ha una natura complessa ed esercita un incredibile fascino. Il risultato è un corredo infinito di argomenti che vanno dalla microbiologia al design del packaging. Ce ne sono inoltre di più soggettivi, più difficili da confutare, come i gusti personali o alcune stime di valore. Effettivamente, tutto ciò porta a raccontarsela come si vuole, fino a generare veri e propri inquinatori di pozzi. Resta il fatto che nell’era dei social i bluff durano il tempo che si impiega a versare e bere un calice di vino, dopodiché (massimo 20 minuti) diventa tutto più tollerabile.