Ceci, cumino e… bicarbonato? Karem Rohana e Fidaa Abuhambiya, in occasione del Falafel day, ci raccontano il significato personale e sociale di un piatto simbolo della cultura palestinese.
Il 12 giugno di ogni anno, a partire dal 2012, si festeggia l’International Falafel Day, una giornata istituita da Ben Lang, imprenditore israeliano e soldato dell’IDF (Israel Defense Forces, l’esercito israeliano), per celebrare un piatto che Israele, a suon di immagini, bandiere, slogan e canzoni, cerca di fare proprio.
Dall’Egitto alla Palestina
Le origini dei Falafel vanno indietro nel tempo, e all’inizio della loro storia sono stati la risposta alla necessità dei Cristiani Copti d’Egitto di non mangiare alimenti di origine animale in specifici periodi dell’anno, come la Quaresima. In Egitto però si chiamano Ta’amia, e sono polpette a base di fave che, espandendosi nei territori limitrofi con maggiore disponibilità di ceci, sono stati qui definiti falafel. In Siria, in Palestina, e, successivamente, nei territori occupati da Israele.
Oggi i falafel sono simbolo di resistenza e mezzo di rivendicazione dell’esistenza dei palestinesi, in risposta all’appropriazione culturale che Israele ha messo in atto. Ma per capire più da vicino cosa sia un simbolo e in che modo questo possa essere espropriato, non ci resta che parlare con i diretti interessati. In occasione del Falafel Day, quindi, vi raccontiamo di questo street food attraverso le parole di chi la Palestina ce l’ha dentro dalla nascita e non si arrende all’occupazione israeliana.

Il falafel raccontato da Fidaa Abuhambiya e Karem Rohana
Fidaa Abuhambiya, interprete, insegnante e co-autrice del libro Pop Palestine, ricorda il Falafel come la merenda che a scuola andava a comprare dopo la terza ora, nel quarto d’ora di pausa; come il pranzo veloce dopo una mattinata di compere in famiglia, l’antipasto durante il Ramadan e la colazione nel giorno di festa, il venerdì. Menziona come imperdibile quello che si mangia a Gerusalemme, all’interno del Ka’ak, il pane di sesamo. Che sia ripieno, all’interno del Ka’ak o con un’insalatona vicino, il falafel è un atto di resistenza, in territori dove ogni giorno si lotta per la vita.
Karem Rohana, logopedista e attivista per la causa palestinese, conosciuto su Instagram come Karem_from_Haifa, vede nel Falafel un pasto tradizionale consumato prevalentemente fuori casa, “un piatto conviviale che unisce e allarga i confini della cucina di casa e la trasforma in una piazza”, e uno degli ultimi custodi dell’identità palestinese, che attraverso profumi e sapori permane anche nei territori occupati. È infatti nella cucina della zia che sente ancora il profumo di casa, l’essenza della Palestina, laddove resiste aldilà dell’espropriazione di terre, identità e cultura.
Ingredienti immancabili e facoltativi
Fidaa dalla Cisgiordania, più precisamente da Hebron; Karem da Haifa, che insieme alla sua famiglia si riconosce nell’identità palestinese anche se la città dal 1967 rientra nei confini dello Stato Israeliano; entrambi raccontano quanto stratificato, complesso e diversificato possa essere il Falafel anche attraverso gli ingredienti e la preparazione.

Concordano sul cumino come elemento principale e immancabile di quelle che sembrano semplici polpette di ceci, così come immancabile è il prezzemolo, che conferisce una colorazione verde al suo interno. I ceci per Karem devono essere rigorosamente comprati secchi, reidratati e poi tritati per procedere all’impasto, che può prevedere anche il bicarbonato. Questo è un elemento di discussione che sembra essere ricorrente e divisivo un po’ come la panna nella carbonara: per Fidaa l’aggiunta di bicarbonato, che servirebbe per far gonfiare i falafel, è invece un sintomo di insicurezza del cuoco che, anziché aumentare la qualità del risultato finale, la riduce, soprattutto quando il suo sapore si sente chiaramente.
Cipolla, aglio, tahina non mancano mai anche se in quantità variabile, e poi c’è chi aggiunge anche coriandolo e peperoncino per insaporire ulteriormente.
Insomma, come ogni ricetta della tradizione che si rispetti, non esiste una lista di ingredienti uguale per tutti, ma mantenendo dei punti fermi si arricchisce poi di abitudini e gusti propri diventando un caleidoscopio di possibilità.
L’appropriazione culturale
Infatti le vicissitudini storico-geografiche hanno sempre portato ad una diversificazione naturale ed inevitabile di ogni piatto, una risposta all’entropia dei popoli. Come fa notare Fidaa, il Falafel non è solo palestinese, e l’obiettivo non è togliere agli altri per irrigidirsi su un elemento identitario.
Quello a cui si fa fronte non è un cambiamento casuale. È il furto intenzionale e deliberato dell’identità altrui che richiede rivendicazione e resistenza, soprattutto quando accompagnato dall’uccisione di migliaia di persone, dal protrarsi di oppressione, violenze sistemiche e occupazione di terre.
Karem l’appropriazione culturale e l’identità israeliana ce le racconta con due immagini che si vedono nell’aeroporto di Tel Aviv: la prima mostra dei Falafel con la bandiera israeliana, la seconda dei soldati che corrono in un prato, esemplificativa del militarismo spinto di Israele, per di più romanticizzato.
Il cibo come strumento di lotta
E nonostante il cibo da Israele non sia utilizzato solo per crearsi un’identità, ma anche come arma per il genocidio in atto, privando i palestinesi dell’accesso alle risorse alimentari, come denunciato dal World Food Programme, chi non vive nei territori occupati non perde alcuna occasione per tener viva la Palestina e tramutare il dolore in forza, come evidente dalle parole conclusive di Fidaa Abuhambiya: “Ogni modo di parlare, di mostrare il cibo è un atto di resistenza. Conservare la cottura è resistenza, scrivere e fare formazione sono atti di resistenza. Non possiamo stare con le mani in mano e dire che ci hanno rubato tutto. Piangere, fare le vittime. Bisogna agire sempre e ognuno fa quello che può con i suoi strumenti. I miei strumenti sono il cibo. Faccio comunicazione e informazione parlando di cibo perché è un atto di resistenza. Faccio scambi senza togliere agli altri. Essere sotto occupazione non mi dà diritto di attaccare gli altri e rubare agli altri.”